La Pinacoteca

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Una Pinacoteca per Massimo Rao: l’artista sannita ritorna a casa

Emilio Bove

L’inaugurazione di una pinacoteca dedicata a Massimo Rao rappresenta sicuramente l’inizio di una nuova avventura. .Ma è anche un omaggio doveroso ad un figlio della nostra terra a cui il fato ha negato di ricevere in vita i riconoscimenti che avrebbe sicuramente meritato se la sua Arte non fosse stata prematuramente interrotta da una malattia breve ed irreversibile.
E difficile, per chi scrive, ricordare Massimo Rao come artista; ed è praticamente impossibile raccontare la sua pittura per chi lo ha sempre considerato, semplicemente, un amico d’infanzia.
Nella mente, inevitabilmente, prendono il sopravvento i ricordi del compagno d’avventura con cui si sono condivisi, in ordine cronologico: l’amore per i Beatles, i movimenti pacifisti dei “formidabili” anni ’60, i poeti maledetti e, soprattutto, il legame con le proprie radici ed il proprio paese. Un amico con il vizio del disegno, una smania irrefrenabile che lo portava a colorare un po’ dappertutto: sui quaderni, nei diari scolastici e perfino sulle pareti della nostra prima associazione giovanile, un vecchio deposito – metà cantina, metà garage — che vide gli esordi del nostro promettente gruppo musicale. Avevamo le basette lunghe ed i pantaloni a zampa d’elefante.
In quella cantina, tra l’odore acre della muffa e l’umidità delle panche allestite con i rimasugli di una segheria abbandonata, si consumavano le insoddisfazioni adolescenziali nell’attesa spasmodica delfesame di maturità. Erano gli anni in cui Massimo, dopo un’infelice parentesi ginnasiale avviata solo per acconsentire alle aspirazioni paterne, si era iscritto al liceo artistico di Benevento, un Istituto decisamente più consono alle sue inclinazioni.
La maturità, conseguita nei termini previsti, gli consentì una breve avventura universitaria presso la facoltà di Architettura a Napoli. Qui s’innamorò dei segni grandiosi e dell’anima contorta della grande capitale borbonica. Rimase affascinato dai vicoli dei quartieri, dal borgo degli orefici, dalle viscere interne della città barocca. Una Napoli oscura, intrisa di sudore e lontana dal suo mare. Una Napoli affogata nei palazzi di tufo giallo ancora umiliati dal bombardamento americano del ’43.
Ma la scarsa propensione per l’analisi matematica e l’ostracismo verso le tecniche di costruzione attenuarono la sua presenza nelle aule universitarie. Fu quello il periodo della nostra più intensa frequentazione: interminabili pomeriggi in un laboratorio nei pressi della chiesa parrocchiale. Un tavolo e qualche sedia spagliata. Ampi tendaggi e decine di pennelli intrisi nell’acqua ragia dall’odore inconfondibile. Bastava un giradischi e immediatamente partiva il repertorio musicale: Hey Jude, don’t make it bad, take a sad song and make it better, Remember… Ovviamente l’inglese era cantato per assonanza, senza alcun riferimento al significato delle parole. Nel frattempo la leva militare cominciò ad essere incombente ed i mesi precedenti alla sua partenza trascorsero come quelli di un condannato nell’attesa del patibolo. Felicemente militassolto, Massimo partecipò, quasi controvoglia, ad un premio di pittura e… indovinate?
Vinse il primo premio!

Un gallerista, intuendo le potenzialità del giovane artista dall’aspetto hippy, occhialini rotondi come quelli di John Lennon, non esitò a scritturarlo. Iniziò così la sua prima avventura professionale; il momento in cui la passione si trasformò in professione e cominciò finanche ad essere remunerata. Naturalmente con molta parsimonia.
Il destino lo portò a Bolzano dove, fin dalla sua prima “personale” impose il suo stile elegante, i suoi personaggi surreali e gli innumerevoli travestimenti della luna. Cominciò a lavorare con la Galleria Steffanoni di Milano, nelle cui vetrine fu conosciuto ed apprezzato anche da Vittorio Sgarbi. Iniziò così la sua vera carriera, breve ma intensa: la galleria Steltman di Amsterdam, le mostre di Maastricht, Aosta, Napoli, Innsbruck, Anversa e infine New York. .
Gli ultimi anni della sua vita li ha trascorsi in un casolare sulla cima di un colle, nelle verdi terre dell’Umbria, alternando la pittura alla coltivazione dei fiori, una nuova fissazione di cui divenne esperto vantandosi di conoscere nomi scientifici e specifiche caratteristiche di ogni singola fiorescenza.
Ma il suo paese d’origine è sempre rimasto per Massimo un costante punto di riferimento. Non ne ho mai compreso le vere ragioni.
Egli ricordava spesso aneddoti di un passato ormai lontano, tracciava volti, commentava vicende e comportamenti di personaggi ormai dimenticati nel tempo. Rielaborava i vecchi racconti degli anziani, scrutava nelle strane e fantasiose leggende raccontate intorno al focolare durante le gelide serate invernali.
Quando ne parlavamo riaffioravano i malinconici ricordi della sua infanzia, di un periodo profondamente segnato dal lutto per la perdita prematura della madre.
Il mio ultimo ricordo di Massimo sembra ieri. Risale a pochi mesi prima della sua scomparsa. Una serata a casa mia, con gli amici di sempre. L’occasionale rimpatriata ci fece ripercorrere venticinque anni di “carriera” goliardica: le carnevalate, il balletto russo, le tournée musicali. Insomma, la colonna sonora di una vita.
Feroci commenti sul presente ed implacabili pettegolezzi, altra arte in cui era imbattibile.
Gli accordi della chitarra rievocarono i nostri indimenticabili cavalli di battaglia: Lucio Battisti, Fabrizio de André e l’immancabile repertorio classico napoletano. Per l’ultima volta.
E per l’ultima volta Massimo, stonato come una campana, si esibì nella sua «Canzone del Sole» impegnandosi con la puntigliosità di sempre nell’improbabile acuto, alla disperata ricerca del finale travolgente.
Si parlò in quell’occasione dei nuovi progetti, del futuro, della solitudine e della vecchiaia.
Ma proprio allora mi accorsi di conoscere molto poco della personalità di Massimo che, al di là della corteccia esterna, aveva sempre mostrato il pudore nel rivelare le sue passioni.
Dopo la sua morte ci siamo accorti di non averlo conosciuto abbastanza. E, forse, non siamo stati i soli. Perfino Klaus, che ha condiviso con lui gli ultimi vent’anni della sua esistenza, mi confidò di non aver saputo cogliere gli aspetti più misteriosi della sua personalità: «Massimo ha portato con sé il grande enigma della sua vita. Egli parlava pochissimo di se stesso ed affidava poche righe persino ad un diario, da me bruciato per rispettare l’estrema discrezione che lo contraddistingueva. […] L’evento che più d’ogni altro determinò lo scorrere della sua vita fù l’atroce morte di sua madre quando egli aveva quattordici anni. Mi disse che in quel momento sentì un terribile freddo e da allora non riusciva più a trovare la gioia di vivere. Ho dato alle fiamme un foglio dopo l’altro, lentamente, con grande cura e con grande affetto. Ciò che vi era scritto non doveva rimanere esposto alla curiosità dei posteri, né indifeso contro i loro giudizi e pregiudizi, né alla mercé dell’ignoranza. Ho sparso nel giardino la cenere di quelle intime e commoventi parole…».
Da allora Massimo ha iniziato a sognare la luna, la cui presenza costante, quasi ossessiva, ha accompagnato la sua pittura giocando un ruolo importante in quanto motivo principale del suo mondo mistico e virtuale.
Luna femminea, rotonda, pallida.
Dalla presenza ingombrante e scomoda, invadente e spudorata. Oppure discreta, morbida, silenziosa, quasi rassicurante. Spesso è presente, altre volte è semplicemente citata mediante un’iscrizione scolpita nella pietra, in caratteri maiuscoli, in stile romanico.
Luna che si trasforma in eterei personaggi avvolti in ampi drappeggi; indumenti esotici gonfi dal vento o racchiusi come conchiglie, fuori dal tempo, ai confini tra la vita e la morte, proiettati dentro paesaggi onirici e surreali.
La straordinaria manualità, la meticolosa ricerca di dettagli fanno di Massimo Rao un pittore colto, tradiscono una profonda conoscenza degli artisti del passato: il Seicento napoletano, Jacopo da Pontormo, Jusepe de Ribera e Michelangelo Merisi.
A guardarle bene, le sue figure, anche quelle apparentemente monocrome, sono in realtà variegate di colori dove ciascuno ha la possibilità di scegliere il colore appropriato, la giusta tonalità. Come per la maggior parte delle sue opere, definite «Senza Titolo», quasi ci avesse lasciato lo spazio per titolarle con ciò che sentiamo.
La pinacoteca vuole celebrare degnamente la sua grande sensibilità.
Finalmente Massimo Rao potrà mostrare a tutti la sua complessa e costante ricerca della luna.
Potrà svelare il suo impegno alla scoperta di quei nuovi strati dell’esistenza, come solo pochi grandi artisti sanno fare.

…né in cielo, né in terra…

Valentino Petrucci

L’avventura artistica di Massimo Rao comincia all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso, a Benevento, in una mostra collettiva di giovani pittori sanniti. Il gallerista, venuto dalla Puglia a curiosare e, chi sa mai, a scoprire qualche giovane talento, notò subito le opere di quel timido studente che dipingeva soggetti accademici (nature morte, ritratti di fanciulle in pose liberty) con qualche concessione alla moda hippie del tempo (decorazioni floreali e capigliature cespugliose). chiese il gallerista.gli fu risposto.

subito da lui!, fu il perentorio ordine di Michele Ladogana (il gallerista), che così fece conoscenza del giovane pittore e lo prese a lavorare per la sua galleria, in quel di Trani, organizzandogli le prime mostre personali e mandandolo all’Accademia di Venezia a perfezionarsi nelle arti grafiche. accompagnatemi

Così cominciò la carriera di Massimo Rao, con l’intuizione di un gallerista perspicace, che seppe cogliere nelle opere acerbe di un giovane studente le impronte ancora confuse, le potenzialità del genio a venire. Senza Michele Ladogana non ci sarebbe stato Massimo Rao, o comunque il suo percorso artistico sarebbe stato diverso, forse nullo, e Massimo sarebbe rimasto un dilettante o sarebbe diventato un architetto svogliato, mediocre, con l’hobby, come si dice in questi casi, della pittura, un “pittore della domenica”, insomma.

Poi, a metà degli anni ’70, l’incontro, anche quello decisivo, con Klaus Romen ed il trasferimento a Bolzano, dove lavora per la galleria Leonardo  con il gallerista Sergio Fable.

Se mi soffermo su questi particolari biografici, è per due motivi: primo, render merito a chi ha “scoperto” Massimo Rao e a chi gli è stato vicino dall’inizio; secondo, far capire quanto la vita di un artista (ma in fondo di ciascuno di noi) dipenda da circostanze casuali, da incontri fortuiti che segnano per sempre il nostro destino.

Quanto poi all’arte di Massimo Rao, alla sua tecnica prodigiosa, molto è stato scritto negli anni e forse lui stesso, schivo ed ironico per natura, sarebbe infastidito da tutto questo clamore e da tutte queste “interpretazioni”.

In fondo, la vera Arte non ammicca allo spettatore, non ha “messaggi” di sorta da trasmettergli, piuttosto lo sorprende e lo stupisce. Questo stupore lo affranca per un momento (prezioso!) dal principio di necessità (le regole e gli affanni della vita quotidiana), producendo quello straniamento liberatorio che si consegue quando contempliamo la Bellezza. La vera Arte non ha bisogno di spiegazioni e dunque di competenze specifiche da parte di chi ne fruisce. <>, diceva Oscar Wilde. (Qualcuno potrà mai spiegarmi perché mi piace un certo oggetto, un certo paesaggio, un certo essere umano – piuttosto che un altro? credo di no).

La grande arte è sempre spontanea, a suo modo ingenua, frutto di istinto e non di calcolo. Non c’è niente di meno artistico dell’originalità ricercata a tutti i costi, per avere successo e far parlare di sé: a questo proposito, il filosofo Bertrand Russell parlava di <<… deliberato vandalismo che ignora la tradizione e, ricercando l’originalità, consegue soltanto l’eccentricità>>.

Oggi, a mio avviso, si tende a confondere l’arte con la provocazione. Chi è vero artista è anche (senza volerlo) un provocatore. Caravaggio, ai suoi tempi, “provocava” i contemporanei con il suo oltraggioso realismo e, tre secoli dopo, Gauguin scandalizzava i benpensanti parigini con i suoi fiumi rosa ed i Crocefissi gialli.

Purtroppo non è vero il contrario. Il provocatore non è necessariamente un artista, anche perché della pura e semplice provocazione siamo capaci (quasi) tutti, basta un po’ di fantasia (o di furbizia): metto qualcuno che assomiglia al papa in mutande, uno scatto  et voilà, divento subito un “artista” della fotografia di cui parlano i giornali. Si spaccia per arte quella che è solo provocazione, spesso di cattivo gusto oppure semplice creatività (altro vocabolo molto in voga, di cui è meglio diffidare). Per esempio, si prendono degli elastici colorati (sì, avete capito bene, dei banalissimi elastici di caucciù), si incollano su una tela e, miracolo, siamo in presenza di “un’ opera d’arte”, che viene esposta nei musei e riverita dai critici: l’arte ridotta a bricolage d’autore. <>, consigliava sbrigativamente Leo Longanesi.

Massimo Rao non ha mai usato queste scorciatoie: ha lavorato duramente, ha studiato per anni e anni in un apprendistato continuo (e senza frequentare influenti “parrocchie” politiche e/o artistiche) prima di diventare l’artista che adesso ammiriamo.

<>. Con tutte le ansie e i dubbi di colui che vive, non solo di arte, ma per l’arte: <>.

Aristocratico (nel senso spirituale del termine), convinto che l’Arte potesse evitare, quantomeno ritardare l’incombente “inverno dello Spirito”, Massimo Rao era tanto orgoglioso da ignorare, a New York, i galleristi che lo tallonavano con le loro “proposte”, e tanto umile da allestire, ogni Natale, il presepe nella chiesetta di Pornello, dove viveva.

Gli esiti della sua arte sono inclassificabili per il sovrapporsi delle suggestioni e delle “citazioni”: le sibille contadine di Salvator Rosa, dagli occhi pieni di malizia e di presagi, i paesaggi lividi e tersi di Grünewald e van Eyck, i ritratti di Böcklin e David, le allucinazioni architettoniche di Piranesi e Monsu Desiderio…

Anche le sue letture riflettevano una curiosità inesausta, divorante, cifra di un modo di essere e non solo di dipingere, quasi fosse consapevole di non avere tempo, di non avere più molto tempo: Blixen e Yourcenar, “la metafisica dei maghi”, il misticismo di Guénon e Zolla, le meditazioni zen, Chatwin e Proust.

Il risultato di questo eclettismo pervasivo è uno stile affatto originale, lontano da ogni folklore, da ogni “localismo”: nei suoi quadri niente fienagioni né cavalcate campestri, come ci si aspetterebbe da un pittore “figurativo” sannita e per giunta così innamorato della sua terra. I personaggi di Massimo Rao sono al di là del Tempo e della Storia: >.

Non è un caso che l’ultima mostra allestita dall’artista (Università “Suor Orsola Benincasa”, Napoli, 1995) fosse dedicata alle “Utopie nel tempo”. Proprio come in Utopia, il Paese dove il Tempo è sospeso, dove tutto è e niente succede, i suoi personaggi  non agiscono: si limitano a vivere l’eternità del loro attimo con la rassegnazione di chi accetta di secondare un incantesimo.

Ad accentuare l’effetto onirico contribuisce l’androginia dei volti e dei corpi. Questi personaggi che abitano oltre le Porte della percezione (“né in cielo né in terra”) sono chimerici, irreali, quasi delle essenze metafisiche rivestite di sembianze umane: non partecipano della materia di cui è composta l’umanità e non sembrano condividerne i bisogni. Il sommo dell’arte è, secondo Winckelmann, “la dolce convessità” dell’androgino, partecipe di due nature, <>.

Terre di incantesimi al di là del tempo e dello spazio, dove il sogno della realtà si confonde con la realtà del sogno: è questa la dimensione di Utopia e della pittura di Massimo Rao – la terra incognita dove stilla “la quiete incantata dei papaveri”.