Massimo Rao

Un incontro con il ‘sovrannaturale’

Massimo Rao, 20 giugno 1988

San Salvatore Telesino, è il paese dove sono nato il 6 gennaio 1950, vicino a Bene­vento dove ho frequentato il Liceo Artistico. Molto presto, tutti i miei più lontani ricordi lo lasciano supporre, è avvenuto l’incontro con il “sovrannaturale” che si era mostrato “una volta” e che ormai, forse, ora, si annidava fra le pendici dei monti tutto intorno fitte di boschi impenetrabili a proteggere grotte, dominio assoluto di maliosi spiriti femminili…le ultime Ninfe? Poi gli studi alla Facoltà di Architettura di Napoli e, sono stati gli anni della scoperta dei segni grandiosi ed estenuati della Città – Capitale e dell’anima contorta e guizzante di Bernardo Cavallino e del Ri­bera.
Il capriccio per un esotismo “al contrario” ed altri eventi propizi mi hanno portato
a vivere a Bolzano.
Troppo mi erano piaciuti prima di allora Matthias Griinewald e Jan Van Eyck per non desiderare di gettare, cosl uno sguardo, ai “lontani fiumi del Nord”. Ed è ll, sotto le azzurrine luci riflesse delle taglienti cime dei monti, che sono affiorati sicuri e dirompenti i segni già preconizzati che fanno la mia storia di pittore che prosegue ora, sotto auspici diversi, in una casa in cima ad un colle in Umbria, su tracce ap­ pena suggerite…
I:Umbria è bellissima ma distante, attonita e silenziosa e il viaggio che ho intrapreso può continuare, qui, solo in un senso, verso me stesso.

Vittorio Sgarbi

Massimo Rao ha due qualità: l’invenzione sicura, la fantasia che gli deriva dal rapporto con la storia del nostro tempo, soprattutto nella linea del surrealismo che culmina in Magritte, ed una tecnica coltivata sui maestri antichi.

E se in alcuni quadri degli inizio degli anni ’80 egli ha guardato, di volta in volta, un pittore napoletano come Bernardo Cavallino, oppure a David, il grande pittore neoclassico francese, la sua originalità sta nel non aver citato le opere, ma interpretato il metodo, è nell’essere sfuggito comunque alla mediazione della fotografia e dal suo derivato realismo artificioso. (…)

Dobbiamo guardare a Massimo Rao come ad un inventore di forme, a un tenace ma spontaneo sostenitore del valore fondamentale della pittura, che è quello della qualità; qualità di esecuzione, prima di tutto, ma anche qualità dell’intelligenza cioè capacità di dare al quadro una vita che non sia una sorda e meccanica ripetizione di quanto abbiamo già visto.

da: Catalogo mostra alla Galleria Stefanoni (MI) 1988

La tecnica è veloce, la definizione del disegno sicura. In particolare Rao ama i panneggi, gli ampi drappi, i turbanti, tutto ciò che è suscettibile di piega.

Egli è rinascimentale, barocco, neoclassico e romantico, indifferentemente e sempre con talento.

Ama la scenografia, ma soprattutto ama il mestiere come padre della forma.

Non potrebbe copiare, perché la sua mano reca già un’impronta: egli rielabora, tormenta, gonfia, amplifica; ormai un ritmo lo sospinge verso sempre nuove invenzioni. La sua è una vera urgenza del disegno, una frenesia, una eccitazione, perfino un’ipnosi, che lo fa procedere quasi automaticamente.

E se si guarda la pittura, essa è figlia del disegno, ne è un accompagnamento, talvolta perfino un freno. Rao ha una grafica che ci ricorda quella di Werner Tübke, il grande tedesco dell’Est, e una fantasia gotica che lo avvicina al “padano” Wainer Vaccai.

Eppure rispetto a quest’ultimo, egli si appoggia di più alla storia, dipingendo opere che, per umore e verità potrebbero esserci state.

da: Vittorio Sgarbi, La stanza dipinta, Novecento Editrice, Palermo 1989


Rao era un disegnatore soddisfatto, sentiva l’urgenza, la necessità, la felicità del disegnare. (….)

Io ho seguito la parabola di questo artista per qualche anno, ho scritto molto, ero incantato da questa felicità, felicità che lo faceva esser assolutamente inattuale. Più che un pittore surrealista, in tempi di avanguardie non pittoriche, come era quella in cui si trovava a lavorare, Rao era più ancora un artista antico, fertilissimo di disegni, di fantasie. Rao era trascinato a disegnare come se una mano agisse dentro di lui una mano fosse nel suo pensiero, il suo pensiero diventasse mano.

da: Catalogo mostra “Massimo Rao” (Art’s events – Torrecuso, 1996)

Rosaria Fabrizio

Nella fase prima del percorso creativo di Massimo Rao, i quadri hanno sapore di teatro, di scena, quasi a voler tratteggiare improbabili rappresentazioni di un immaginario palcoscenico.

“Commedie”, o piuttosto farse, personaggi che si presentano con larghe e grottesche parrucche, capelli radi, arruffati e incolti, per soggetti che si cimentano nella sceneggiata della vita.

(…) Con una lieve cesura che si può appena percepire intorno al 1989 l’opera di Rao assume gradazioni sempre più intime e introspettive.

Intorno a quegli anni infatti, l’artista inizia (o prosegue) un cammino verso i meandri più sconosciuti della propria anima. La sequenza delle sue opere pare formare un lungo racconto, nel quale poter leggere le vicissitudini di un viaggio infinito verso i territori dell’ignoto, dove ogni tappa è rappresentata dall’incontro di fantastici e misteriosi personaggi.

(…) Nel tentativo di suddividere e schematizzare l’opera dell’artista si può intravedere un terzo ciclo creativo. É il tempo di quando Massimo Rao tende ad indugiare nella rappresentazione di se stesso, autoritratti della sua solitudine nell’ultima, tragica, fase della sua vita. Il corpo è ormai provato, ma l’anima è sana. Il volto raffigurato negli ultimi quadri, dal ’93 circa, cambia fisionomia rispetto a quelli disegnati precedentemente. E’ il disegno di un volto che gli appartiene di più. Un volto tondo, dal naso pronunciato, dalla bocca carnosa.

I personaggi si assimilano alla figura, al faccione della Luna, sempre incorsa nei quadri di tutta la sua opera. I personaggi di Rao sono affrancati dal tempo e dallo spazio. All’apparenza giovani, ma sui loro volti non si trova né spregiudicatezza nè spensieratezza. (…) L’età è assolutamente indecifrabile perchè è impossibile decifrare l’età delle anime; di coloro che non hanno nè carne nè ossa non si può discutere secondo umani parametri. Misure umane che così come non valgono per gli anni, non valgono neppure per il sesso. Si aggirano nelle tele di Massimo Rao pellegrini androgini, nei quali risiede l’unità originaria dei principi maschile e femminile. (…)

“Veniva da Saturno e la sua casa era la luna”
da: “Massimo Rao. Animula vagula blandula

Janus

Se osserviamo attentamente i sui quadri ci rendiamo conto che gli occhi che egli dipinge non sono fatti di materia ma di luce, che quelle mani sono diafane, che quel corso è stato composto con le ombre, sovrapponendo ombra a ombra, che tutta la materia è stata deposta altrove, è stata purificata, e rimasta soltanto l’anima delle cose.

“Massimo Rao – L’eternità: l’inizio, la fine”
da: “Massimo Rao. Animula vagula blandula”

Rossana Bossaglia

Rao si immedesima in una sorta di raffinato citazionismo non tanto ripetendo immagini e iconografie della pittura cinque-secentesca, quanto lasciandosene risucchiare in una dimensione evocativa, senza tempo, proprio perchè esse rappresentano, con la forbitezza emozionante del segno, il mito della bellezza intatta e insieme lo struggente senso del remoto, dunque del perduto.

Questa interpretazione e questo sentimento, essendo saturi di suggestioni culturali, assumono la doppia valenza di un’evocazione vissuta attraverso l’interpretazione che ne diede il Simbolismo: a sua volta tensione verso l’inafferrabile. Sicché ogni rappresentazione è come onirica ricerca di simboli che sono sempre ambigui e ambivalenti; e se il personaggio è rapito nel sonno, il suo volto è concentrato e dolce; ma se è desto, il volto non può tradurre che presago allarme, soprassalto d’attesa sgomenta.

da: Catalogo mostra. “Massimo Rao. Al di là del tempo”
(Galleria civica Bolzano, 2007)

Arnold Tribus

Molti pensieri affiorano nella mente di chi ammira i suoi dipinti. La sua opera – cristallina e cangiante, classica ed estatica – è avvolta da veli di armonia e tristezza. Era un artista atipico, non rivoluzionario, com’era in auge allora, ma misurato, devoto alla forma, gentile e colto.

Brillante, meticoloso, preciso e dai modi nobili e concreti. Pieno di sentimenti nostalgici verso l’eleganza, la purezza e la bellezza classiche. Le sue opere sono magnificamente estetizzanti, aristocratiche fino all’eccesso, quasi bizzarre. Ma aldilà del talento si percepiscono immediatezza e precisione: sensibile, melanconico, fantastico. Un uomo di grandissimo talento.

Un maestro.

da: Catalogo mostra. “Massimo Rao. Al di là del tempo”

Ferdinando Creta

Scrivere di Massimo Rao è innegabilmente cosa non facile. Rao è artista fuori dagli schemi, riservato, forse anche introverso, alla continua ricerca dell’io sepolto nella mente umana per scoprirne i meandri più nascosti e per questo è un pittore che richiede un avvicinamento lento, progressivo, intellettuale (…)

Nei suoi dipinti le immagini affiorano attraverso un freudiano processo liberatorio: quasi specchi magici in cui le figure, custodi fedeli di verità, apparentemente femminili -ritratti o meno dell’autore- incantano e conquistano e gli occhi, espressione viva della rappresentazione, diventano “specchi dell’anima”. Rao, come egli stesso sosteneva, ha la necessità di sperimentare, di creare, di percorrere e ricercare con emozionante voluttà “le strade d’accesso alle cose che oltrepassano la realtà” e per questo le figure che dipinge “non fanno quasi mai nulla di preciso e di riconoscibile, loro semplicemente sono e stanno soltanto rappresentando e portandosi dietro e addosso, come tutti indistintamente facciamo, la loro vita, così com’è, sotto gli occhi di tutti…”

                             (dal Catalogo  “Theatrum” Massimo Rao)