Parlano dell’artista
Nel mio paesino del Sud, il mio altrove per sempre. Intervista immaginaria a Massimo Rao
4 maggio 2021
Intervista immaginaria a Massimo Rao di Gioconda Fappiano
Pubblicata sul Magazine: “Lenti a pois” del 4 maggio 2021
Ho incontrato il poeta della pittura in un altrove sognato, in un paesino sperso e dimenticato come tanti del Sud, in una bottega dalle pareti scrostate, nascoste da drappi colorati, dove si spande l’odore di trielina e dove il tempo si è fermato. Su una sedia intravedo un fascio di ginestre, i miei fiori preferiti. Massimo Rao è assorto nel suo disegno. Il tratto sicuro sul foglio è guidato dalla mano del suo pensiero. Mi cade a terra il catalogo di una mostra e il rumore lo fa trasalire. Si volta e mi vede.
Devi scusarmi se sono entrata senza invito ma la curiosità di conoscerti era troppo forte.
Ti aspettavo invece. Finalmente ti sei decisa. Ho avvertito il timore che hai di intervistarmi ma non c’è nulla di cui io e te non possiamo parlare. Abbiamo poi almeno due o tre amori in comune: la luna, la poesia, l’arte e anche le ginestre. Non è vero?
Sì, adoro le ginestre e il loro profumo intenso, così come spesso mi ritrovo con il naso all’insù a parlare con la luna. A proposito, tanti ti hanno definito “il pittore della luna”, anche se sono pronta a scommettere che a te non piace affatto muoverti nella gabbia delle definizioni e delle etichette. Io però ti ho sempre immaginato come un novello Astolfo in groppa all’ippogrifo, pronto a raggiungere Selene per recuperare tutte le cose perdute sulla terra: le storie mai vissute, i pensieri che bussano una volta alla soglia della coscienza e poi svaniscono per sempre, il senno perduto dell’uomo.
Spesso d’inverno indosso un mantello ampio per coprirmi dal freddo, ma ti sembro un cavaliere? Un paladino? E di quale causa, poi? Non ho mai pensato che l’arte dovesse avere un fine utilitaristico, sia esso politico, morale, religioso. La bellezza pura e disinteressata, l’inutilità poetica dell’arte è l’essenza stessa dell’arte.
Sono un cavaliere del gratuito. Se proprio vuoi trovare una missione in quello che faccio, la mia missione è quella di diffondere” il vangelo dell’inutilità dell’espressione artistica”, persa nella fertilità della fantasia e libera dall’ingombro della verità e dal pragmatismo. Quando dipingo avverto solo la necessità di sperimentare, di ricercare e percorrere le strade di accesso alle cose che oltrepassano la realtà, di interrogarmi e di vagabondare nella bellezza del dubbio.
In molte delle mie opere, è vero, appare spesso la Luna che illumina il mio percorso artistico e forse anche esistenziale. La luna dai campi pallidi è il luogo da cui parte e a cui approda la poesia, il luogo del possibile, di ciò che non è ancora accaduto e che potrebbe accadere o che non accadrà mai. Ma questo non ha alcuna importanza. Le suggestioni dei tuoi lavori sono spesso crepuscolari, a volte notturne. C’è una luce velata che introduce al mistero delle persone che ritrai, creature fatte della materia dei sogni, di cui è quasi sempre impossibile decifrare il sesso, l’età, la collocazione temporale. E non agiscono. Semplicemente, “stanno”.
Le mie figure non fanno mai nulla di preciso e di riconoscibile. I miei volti lunari sono custodi silenziosi del mistero della pittura. Semplicemente “sono”, si rappresentano portandosi dietro e addosso la loro vita, così com’è, sotto gli occhi di tutti. A volte seppelliscono la faccia (falsa) sotto la maschera (vera) della recita. I drappeggi voluminosi in cui sono avvolti, i tendaggi ridondanti, le quinte teatrali che fanno da sponda rimandano all’idea di un palcoscenico immaginario in cui si celebra il trionfo del disinganno. Viviamo in una realtà di plastica, in un mondo sempre più appiattito nella volgarità, una società-beccheria che ci tira il sangue dalle vene. Rimmel, biacca, bistro, travestimenti saranno i fucili di una rivoluzione clownistica delle marionette ribelli che vogliono spezzare i fili mossi dai burattinai. Riprendiamoci la nostra anima-bestia!
Una volta hai scritto che l’incontro con il “sovrannaturale” è avvenuto tra le pendici dei monti di San Salvatore Telesino, il paese dove sei nato, nelle le grotte, tra i boschi impenetrabili abitati da maliosi spiriti femminielli che tu chiami “le ultime Ninfe”. Perché sei andato via dal tuo borgo, che pure ti ha regalato tante suggestioni?
Ho amato e amo molto il mio paese, dove ho amici che mi vogliono bene e a cui voglio bene, così come amo la provincia e detesto il provincialismo. Certo la voglia di conoscere e di mettermi in gioco era tanta, e gli studi di Architettura a Napoli mi hanno fatto scoprire l’anima contorta e guizzante di Bernardo Cavallino e del Ribera. Il capriccio per un esotismo “al contrario” ed eventi propizi mi hanno portato a vivere a Bolzano. Troppo mi erano piaciuti prima di allora Matthias Grünewald e Jan Van Eyck per non desiderare di gettare uno sguardo ai “lontani fiumi del Nord”. La mia storia di pittore è continuata poi sotto auspici diversi in una casa in cima ad un colle in Umbria, a Pornello San Venanzo, intercalata da fughe ad Amsterdam, Maastricht, New York e in molti altri posti dove ho realizzato mostre personali e collettive. L’Umbria è bellissima e distante, attonita e silenziosa, come la luna.
Il mio viaggio però è finito qui dove tutto ritorna, nel mio paesino del Sud, il mio altrove per sempre.
Come si reagisce alla vita?
Vivendo. Con tutta la speranza e la paura che ci portiamo addosso, stancandoci di lacrime e risate, dei giorni e delle ore, dei desideri, delle illusioni, di ogni cosa. Ma non del sogno.
Nell’ultimo ciclo delle tue opere, la critica ha evidenziato una sorta di testamento di storie personali. Le creature che ritrai, còlte nel momento della partenza per compiere il viaggio finale, sono molto diverse da quelle abbellite in precedenza da vesti gonfie e turbanti fantasiosi.
Tu che pratichi la scrittura, dovresti sapere che più che la parola è il non-dire che svela il significato dell’esistenza. Con il tempo si toglie, non si aggiunge più nulla. Le mie ultime creature vestono abiti sdruciti ma vissuti, consunti dal tempo e dalla fatica del vivere. Nel viaggio verso i luoghi pallidi delle ombre portano con sé solo un fagotto minimo e il pane degli Elfi, nutrimento leggero che basta all’anima.
Non mi hai chiesto però una cosa. La canzone a cui tengo molto e con la quale i miei amici mi ricorderanno per sempre. Credo che la nostra conversazione possa finire qui, in nome proprio dell’essenzialità di cui hai parlato in precedenza.
Di quale canzone si tratta?
La canzone del Sole.
Massimo Rao. Il guardiano solitario
di Michele Lasala
Difficile dimenticare lo stupore e la meraviglia che provai quando per la prima volta fui davanti alle opere di Massimo Rao. Fu una sera di qualche anno fa. a Trani. alla galleria “Michelangiolo” di Antonio Ladogana, figlio di Michele, il vero scopritore di Rao. Io e Antonio discutevamo davanti a quelle acqueforti e a quei disegni, parlando di Rao come se Rao fosse un amico di vecchia data e con cui avessimo trascorso una bella serata il giorno prima. Ne parlavamo come se Rao non fosse morto, e infatti era vivo davanti a noi, era presente in galleria con tutto il suo corpo e con tutta la sua anima. Ne sentivamo infatti la presenza, almeno io la avvertivo, e percepivo il suo umore osservando quelle figure, quei guardiani solitari alle porte del mondo che nascevano da un mirabile intreccio di linee sottili e vibranti. Linee che tradivano il pensiero di Rao, altrimenti oscuro, impenetrabile, misterioso, sfuggente; che svelavano, in sostanza, la sua anima inquieta; mettevano a nudo la sua angoscia; parlavano della sua congenita solitudine. In galleria c’erano anche opere di altri maestri, tutti eccellenti, tutti notevoli; ma la nostra attenzione, mia e quella di Ladogana, era focalizzata su Massimo Rao e sulla sua genialità, sulla sua maestria e sul suo talento indiscusso.
Disegnatore impeccabile, Rao, frenetico e ossessivo nel tratto; veloce e preciso nel dare forma alle figure. Figure imprevedibili, sbucate da un mondo sconosciuto, altro rispetto al nostro. Come un vero cappellaio magico, Rao estraeva dal suo inesauribile cilindro tutto quello che voleva, tutto quello che immaginava: personaggi incappucciati, poeti senza più parole, demoni della luce, Narcisi gonfi d’aria, pescatori d’anime, mercanti avari e sirene addormentate. Personaggi senza nome, figli soltanto della luna, custodi di antiche leggende e di arcane verità. Rao, lui stesso pescatore di anime, faceva riaffiorare dall’oscuro abisso del sogno i volti di chi non è mai vissuto ma sempre c’è stato, di chi non ha avuto una storia ma mille ne può raccontare. Davanti alle sue opere si rimane attoniti, perplessi. Si cerca un possibile senso a quello che vediamo, a tal punto che il nostro assomiglia molto all’atteggiamento del pastore errante nell’Asia di Leopardi, che alla luna domanda: «Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai / silenziosa luna? / sorgi la sera, e vai, / contemplando i deserti; indi ti posi. […] Pur tu. solinga. eterna peregrina, / che sì pensosa sei, tu forse intendi, / questo viver terreno. / il patir nostro, il sospirare, che sia; / che sia questo morir, questo supremo / scolorar del sembiante. / e perir della terra, e venir meno / ad ogni usata, amante compagnia». Cercare un senso nelle opere di Rao è, in fondo, cercare le risposte alla nostra esistenza mortale; è dare un perché alla vanità della vita, al tempo che scorre, agli amori nati e poi finiti, alla nostra condizione di uomini miseri davanti all’infinito. Quei volti lunari, che costellano l’universo simbolico di Rao, sono i custodi silenziosi dell’essere e del mistero della pittura. Piuttosto che la parola, è il non-dire ciò che svela il significato dell’esistente. E davanti alle opere di Rao è meglio tacere per naufragare dolcemente nel mare dell’infinito.
Massimo Rao è stato scoperto da Michele Ladogana agli inizi degli anni Settanta in occasione di una mostra collettiva allestita a Benevento. Ladogana fu talmente colpito dai dipinti di Rao che volle conoscerlo di persona. Fu così accompagnato a San Salvatore Telesino. il paese dove il pittore era nato nel 1950, e quell’incontro avrebbe dato inizio all’avventura artistica di Rao. A Trani fu così allestita, già nel 1975, la prima personale del giovane pittore sannita, e poi un’altra a Barletta nello stesso anno. L’anno dopo, grazie all’incontro con Klaus Romen, che diventerà suo compagno di vita, Rao si trasferisce a Bolzano, restandovi sino al 1981, e cominciando a lavorare per la galleria ‘”Leonardo”. Si susseguiranno mostre personali e collettive, in Italia e all’estero. Infine il trasferimento a Pomello di San Venanzo, in Umbria, dove morirà precocemente nel 1996.
«Rao è pittore diffìcile», scrive. Ferdinando Creta, «acritico nella sua fedeltà all’immagine e alla tecnica tradizionale, pittore che richiede un avvicinamento lento, progressivo per un piacere sottile, intellettuale, eppure non d’élite. Con il suo lavoro, evidentemente insieme con altri come Clerici, Annigoni, Ferroni, Donizzetti, De Stefano, ha riaffermato, già in tempi non sospetti, il ritorno alla pittura». Nell’arco di vent’anni di attività, Rao ha dato vita a veri capolavori. Nella sua produzione sono confluiti molteplici linguaggi. Rao ha sempre dialogato coi grandi del passato. I suoi
interlocutori sono stati Pontormo e Bronzino, Grtinewald e Piranesi, Bernardo Cavallino e David; ma anche Bòcklin, van Eyck e Salvator Rosa. L’eleganza delle sue figure richiama il nostro manierismo; il mistero che aleggia nei suoi dipinti è quello del simbolismo; le stoffe, i panneggi, i turbanti, le pieghe delle vesti dei suoi personaggi, rievocano il barocco italiano e fiammingo. Ma Rao non cita, non imita, non ripete. Non può e non vuole farlo. Reinventa, semmai. Ci squaderna mondi onirici, popolati di figure spettrali e melanconiche, dove costante è la presenza della luna. Luna dagli occhi vitrei, talvolta, profondi, eterni. Rao ama gonfiare le vesti; amplifica le forme e ingigantisce i corpi (Il pianeta privo di corso; Monsieur-Troublet. Ornitologo). Le sue figure si muovono libere, leggere, come quelle di Per caso e per un attimo del 1986 o Sott’acqua e sotto vento, opere la cui atmosfera ricorda perfino Domenico Beccafumi e Rosso Fiorentino, artefici anch’essi di mondi onirici e surreali.
Massimo Rao, come ricorda Janus, «dipingeva come se dovesse portare sempre alla luce qualche tesoro nascosto sotto terra o tra le rocce, qualche cosa di impalpabile e di vivo come un’anguilla o una lucertola, quasi sicuramente Faspirazione alla purezza, poiché proprio questo era il sigillo fatale del suo dipingere, e forse del suo vivere, come se dovesse sempre sbarazzarsi del suo corpo, cioè della materia, ed ogni forma dovesse sempre diventare trasparente, una striatura su un antico muro, una macchia di colore che lasciava intravedere un volto umano, quasi una tiepida “roccia di rugiada.”». E in effetti guardando la pittura di Rao si ha la sensazione di trovarsi di fronte non già a delle figure vere e proprie, ma a delle idee, a dei concetti, a dei pensieri. La pittura di Rao trascende il fenomeno e l’apparente e ci restituisce l’essenza delle cose. I volti silenti dei suoi pescatori o dei suoi mercanti, gli occhi tristi dei suoi tuffatori, o la fissità delle sue spose ebree sono i simulacri dell’essere. E proprio Rao sosteneva che i suoi personaggi «non fanno quasi mai nulla di preciso e riconoscibile, loro semplicemente sono». Appunto, “sono”. E sono l’immagine dell’invisibile, del buio della coscienza; dell’anima di Massimo Rao. Un’anima inquieta e fugace, come una notte profonda di luna piena.
Arte e Bellezza
Intervista a Patrizia Bove
L’ARTE, NELLA SUA ESPRESSIONE GRAFICA, NELL’ARMONIA DEI COLORI, DIVIENE STRUMENTO PER EDUCARE ALLA BELLEZZA. BELLEZZA COME ESPRESSIONE DELL’IO AUTENTICO, CHE TOCCA LE CORDE PIU’ PROFONDE DELL’ESISTENZA.
Il concetto di bellezza è indissolubilmente connesso alla vita e si riferisce a quel “qualcosa” che pervade, che emoziona, che muove nel cuore un sentimento di felicità. Nell’arte, la bellezza è all’origine di molte opere ed è elemento di riflessione da parte degli artisti. Nonostante i naturali cambiamenti dei canoni estetici, dei costumi e della società, dall’arte classica a quella moderna, ogni artista condivide il proprio personale concetto di bellezza.
Un’ opera diventa Arte, a mio parere, quando lo sguardo di chi l’ammira non si ferma sulla tela ma va oltre, verso l’invisibile. Quando, poi, quell’opera “trafigge” chi la guarda e dunque tocca le corde più profonde del cuore, allora si ha la certezza di trovarsi di fronte alla Bellezza. Educare alla Bellezza, attraverso l’arte, presuppone dunque un percorso multisensoriale che, partendo dagli occhi, giunga al nostro Io più profondo capace di “guardare” oltre l’immagine, in un processo di immedesimazione con l’artista, entrando nella sua esperienza di vita e nella sua rappresentazione della realtà. Un processo arricchente che, il più delle volte, stimola lo spettatore a riflessioni profonde che coinvolgono anche la sua sfera emotiva e la sua percezione della vita.
LA PINACOTECA MASSIMO RAO DI SAN SALVATORE TELESINO: LUOGO E CUSTODE DI BELLEZZA. UNA CURA PARTICOLARE VIENE DEDICATA ANCHE DALL’ASSOCIAZIONE OMONIMA, CHE VEDE NELLA PRESIDENTE PATRIZIA BOVE UNA PROMOTRICE DI SENSIBILITA’ CULTURALE. LO SGUARDO CHE SAPPIA ANDARE OLTRE.
La Pinacoteca dedicata a Massimo Rao, in San Salvatore Telesino, custodisce circa settanta opere del pittore sannita che, pur costituendo una piccola parte del suo lavoro, rendono molto bene l’idea di quale sia il suo pensiero artistico.
L’arte di Rao è ricca di significati: non solo fantasie personali ma anche grandi temi esistenziali, riflessione e memoria. Dotato di grande manualità, Rao ripropone tecniche e procedimenti antichi che fanno sembrare le sue opere come dipinte secoli addietro: le carte ingiallite, consunte e macchiate, le scritte arcaiche, i colori pastello, rievocano un mondo passato che si propone al visitatore con messaggi e valori molteplici. Rao ama i panneggi, i drappi, i turbanti, tutto ciò che è scenografico. I suoi personaggi sono fuori dal tempo, onirici, ambivalenti. Chi ammira i suoi quadri non può rimanere indifferente rispetto alla quantità di emozioni che provengono dalla sua pittura. Di animo colto e sensibile, elegante e fiero, Massimo Rao trasferisce nelle sue opere un messaggio personale di grande intensità, unitamente al suo grandissimo talento d’artista.
Ed è con la consapevolezza di aver ereditato questo grande patrimonio di valori che l’Associazione Massimo Rao – che mi onoro di presiedere- svolge la sua attività culturale.
Fondata dai familiari e dagli amici più cari dell’Artista, l’Associazione- costituitasi nel 2012 in concomitanza con l’apertura della Pinacoteca- oltre a gestire la Pinacoteca comunale, ha come mission la promozione, divulgazione e valorizzazione dell’arte di Rao.
I progetti, gli incontri e gli eventi hanno carattere squisitamente culturale, che spaziano in tutti i campi: dalla letteratura alla poesia, dalla pittura al teatro, dalla musica alla fotografia.
È nostro profondo convincimento che “educare alla Bellezza” attraverso le arti sia una maniera per contribuire a migliorare la società e per orientare le nuove generazione verso un mondo che non sia solo mera apparizione di estetismo ma meraviglia, stupore, curiosità, tutte qualità che possono essere un’arma contro il mal di vivere dei giorni nostri.
• ASSIMO RAO, AMICO DELLA LUNA, PROTAGONISTA DELLA SUA ARTE. LA LUNA E L’OLTRE.
“Il Pittore della luna”: Rao è stato definito così dal critico d’arte Vittorio Sgarbi.
La Luna è onnipresente nelle sue opere. Incombe, si cela, si mostra sopra tutto e tutti, avvolta da veli di malinconia e di tristezza.
“Dimmi che fai tu, Luna, in ciel?” diceva Leopardi che, come Rao aveva come interlocutrice privilegiata questo satellite. Per Leopardi, così come per Rao, la domanda è pleonastica. Non c’è una risposta del Pittore ma solo tante interpretazioni da parte dei critici d’arte.
Certamente, a mio parere, la Luna è sostanza dell’arte di Massimo Rao perché esprime tutta la sua tensione verso l’ignoto. L’arte di Rao non si ferma al visibile, ma va al di là di ciò che si vede, per questo, come dicevo nella risposta alla prima domanda, è vera arte. Perché trafigge, tocca le corde più profonde del nostro essere, ci interroga e si interroga, in bilico tra il reale e l’immaginario, muovendosi attraverso figure archetipe, come la Luna.